La malattia di Alzheimer è sempre più diffusa. E’ una forma di demenza degenerativa. E’ è la più frequente e rende conto di più del 50% dei casi di demenza.
Prende il nome da Alois Alzheimer, neurologo tedesco che nel 1907 descrisse per primo i sintomi e gli aspetti neuropatologici della malattia. Come le placche e le formazioni neuro-fibrillari nel cervello.
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Che cos’è la demenza?
Il termine “demenza” indica un’insieme di disturbi che si manifestano contemporaneamente.
La sindrome demenziale è caratterizzata da disturbi:
- cognitivi a carico cioè di funzioni quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’orientamento
- comportamentali a carico, cioè, della sfera emotiva e della capacità di rapportarsi correttamente alla realtà e alle altre persone
- somatici a carico, cioè, di alcune funzioni dell’organismo (soma) quali i ritmi sonno veglia, fame-sazietà e la capacità di controllare l’emissione di urina
Molte sono le condizioni che causano la sindrome demenziale: ecco perché è più corretto parlare di “demenze”.
Esse hanno come denominatore comune il progressivo declino delle facoltà mentali.
La cui gravità deve essere tale da rendere la persona malata incapace di svolgere come prima le proprie occupazioni quotidiane.
La riduzione di autonomia del malato e la sua necessità di assistenza sono, dunque, requisiti indispensabili per la diagnosi di qualunque forma di demenza.
La malattia di Alzheimer
E’ una malattia che colpisce la memoria e le funzioni mentali. Ad esempio il pensare, il parlare. Ma può causare altri problemi come confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.
E’ caratterizzata da una diffusa distruzione di neuroni. Principalmente attribuita alla beta-amiloide, una proteina che si deposita tra i neuroni. Dove agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli “neurofibrillari”.
La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello. Si tratta di un neurotrasmettitore, ovvero di una molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni. Importante per la memoria e ogni altra facoltà intellettiva.
La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l’impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi. Quindi la morte dello stesso. Con conseguente atrofia progressiva del cervello.
Infatti la malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello. Dovuta ad atrofia della corteccia cerebrale. Che porta ad un allargamento dei solchi cerebrali.
A livello microscopico e cellulare, sono riscontrabili depauperamento neuronale. Placche senili (dette anche placche amiloidi). Ammassi neurofibrillari.
Ulteriori studi mettono in evidenza che nei malati di Alzheimer interviene un ulteriore meccanismo patologico. All’interno dei neuroni la proteina Tau, fosforilata in maniera anomala, si accumula nei cosiddetti “aggregati neurofibrillari” (o ammassi neurofibrillari).
Sintomi
Questa malattia inizia molto tempo prima della comparsa dei sintomi. Con l’accumulo nel cervello di depositi di sostanze quali la beta amiloide e la proteina Tau.
I primi sintomi sono spesso erroneamente attribuiti all’invecchiamento o stress. Questi possono essere così lievi da passare inosservati. Sia all’interessato che ai familiari e agli amici. Siamo nella fase prodromica.
Possono influenzare molte attività di vita quotidiana. Uno dei sintomi più evidenti è la difficoltà a ricordare i fatti appresi di recente. Seguito dall’incapacità di acquisire nuove informazioni.
Piccoli problemi d’attenzione, di pianificare azioni, di pensiero astratto. Oppure problemi con la memoria semantica (memoria che collega la parola al suo significato). Oppure la difficoltà ad orientarsi in un ambiente conosciuto. Perdersi lungo un percorso memorizzato da poco. Possono essere sintomatici delle prime fasi dell’Alzheimer. L’apatia è il sintomo neuropsichiatrico più persistente. Che permane per tutto il decorso della malattia.
Sintomi depressivi, irritabilità e la scarsa consapevolezza delle difficoltà di memoria sono molto comuni. La fase preclinica della malattia è stata chiamata “mild cognitive impairment” (MCI). Quest’ultima si trova spesso ad essere una fase di transizione tra l’invecchiamento normale e la demenza. MCI è spesso visto come una fase prodromica della malattia di Alzheimer.
I test neuropsicologici dettagliati possono rivelare difficoltà cognitive lievi fino a otto anni prima ( 1 ) che una persona soddisfi i criteri clinici per la diagnosi di Alzheimer.
Fasi di malattia
Le fasi della malattia sono (vedi immagine):
- preclinica o asintomatica: inizio della deposizione di amiloide in assenza di segni e sintomi di malattia.
- prodromica: sintomatica ma in assenza di demenza (decadimento cognitivo: una fase intermedia tra il normale invecchiamento cognitivo e la demenza).
- della demenza: deficit che coinvolgono più domini cognitivi con compromissione del funzionamento del soggetto nello svolgimento delle attività della vita quotidiana.
La fase terminale
Col progredire della malattia, i sintomi diventano sempre più evidenti. Cominciano a interferire con le attività quotidiane. Con le relazioni sociali.
Le difficoltà pratiche nelle più comuni attività, come quella di vestirsi, lavarsi o andare alla toilette, diventano a poco a poco così gravi da determinare, col tempo, la completa dipendenza dagli altri.
Può essere considerata a tutti gli effetti una malattia terminale. Che causa un deterioramento generale delle condizioni di salute.
La causa più comune di morte è la polmonite. Perché il progredire della malattia porta ad un deterioramento del sistema immunitario e a perdita di peso. Accrescendo il pericolo di infezioni della gola e dei polmoni.
Oggi sappiamo che la malattia colpisca sia persone al di sotto dei 65 anni di età che persone al di sopra dei 65 anni. Quando colpisce soggetti al di sotto dei 65 anni di età si parla di forma “ad esordio precoce”.
Come si riconosce
La diagnosi è posta “per esclusione”. In assenza di altre cause che possano spiegare l’insorgenza della malattia. Fino a poco tempo fa era una diagnosi clinica e basata sui test di funzionamento del sistema nervoso centrale.
Oggi disponiamo di informazioni clinico-strumentali e il suo grado di attendibilità è molto elevato (85-90%).
Sistemi avanzati di imaging biomedico, come la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) possono essere utilizzate per aiutare a escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza.
Si utilizza poi la ricerca nel liquor cefalo-rachidiano di alcuni marcatori. Il liquido cefalorachidiano circonda il nostro sistema nervoso centrale. Può essere prelevato attraverso la puntura lombare. Si ricercano nel liquor la proteina amilode e la proteina tau.
Sono in studio strumenti molto più semplici e rapidi per avere una diagnosi precoce di Alzheimer. Attraverso lo studio della retina dell’occhio sarà tra breve possibile valutare la presenza delle proteine tipiche della malattia. Molto prima rispetto a quando si accumuleranno nel cervello dei pazienti.
Tuttavia, si parla sempre di diagnosi di demenza di Alzheimer “probabile”.
La diagnosi certa, infatti, è effettuabile solo attraverso una biopsia cerebrale in vivo o post-mortem. La valutazione dei tessuti cerebrali dei malati permette di evidenziare la presenza delle caratteristiche alterazioni neurologiche. Che rappresentano l’unica prova certa della malattia.
Le cause
La malattia di Alzheimer non è né infettiva né contagiosa.
Le cause che portano allo sviluppo della demenza di Alzheimer non sono ancora completamente chiarite. I meccanismi coinvolti sono molteplici.
Dal punto di vista biologico si osserva una progressiva morte (atrofia) delle cellule cerebrali, i neuroni. Questo processo avviene normalmente anche nell’anziano in buone condizioni. Nei malati di Alzheimer però l’atrofia è più marcata. Si diffonde più rapidamente rispetto ai soggetti sani.
Le cause di questo processo non sono ancora del tutto note. Sebbene sia ormai certa la sua associazione con la presenza quantitativamente anomala nel cervello di depositi di sostanze quali la beta amiloide e la proteina Tau.
Solo in rarissimi casi la demenza di Alzheimer è di tipo ereditario.
Nel mondo si conoscono un centinaio di famiglie affette dalla malattia. Questa forma, che si sviluppa prevalentemente nella fase pre-senile (33-65 anni), si manifesta in tutte le generazioni della famiglia che ne è affetta. In questi casi lo sviluppo della patologia sembra sia legato alla mutazione di alcuni geni. Questi provocano la produzione di alcune proteine patogene (Presenilina 1 e 2; APP: Proteina Precursore dell’Amiloide).
Microbiota e sistema nervoso centrale
Un passo avanti nella ricerca di trattamenti per la malattia di Alzheimer viene da uno studio dell’Università di Chicago ( 2 ). Una ulteriore conferma del profondo e ancora in parte sconosciuto legame tra il microbiota intestinale e il nostro cervello.
La ricerca mostra che un trattamento con antibiotici ad ampio spettro determina nei topi una riduzione dell’accumulo della beta-amiloide.
Gli autori non intendono sostenere che massicce somministrazioni di antibiotici possano diventare una soluzione per gli esseri umani. Sicuramente evidenzia chiaramente che la popolazione microbica intestinale cambia. Che devono esserci ceppi batterici in qualche modo legati all’alterata deposizione di amiloide.
Secondo i ricercatori i risultati ottenuti in questo studio indicano chiaramente che è questa una strada da percorrere nella ricerca di una soluzione all’epidemia di malattie neurodegenerative.
Fattori di rischio e fattori protettivi
Oltre alla ricerca delle cause della malattia si è cercato di analizzare la possibile presenza di fattori di rischio. Oppure di fattori protettivi rispetto alla sua insorgenza. Il fattore di rischio più importante è l’età.
Altri fattori identificati, anche se meno significativi, sono il livello d’istruzione. Le relazioni sociali e la familiarità.
Numerosi studi hanno rilevato una maggiore percentuale di malati tra i soggetti con bassa scolarità e scarse relazioni sociali in età avanzata.
La familiarità è un concetto diverso dalla forma ereditaria su base genetica della malattia. E’ un fattore di rischio. Infatti, la presenza di una o più persone affette in una famiglia aumenta la probabilità di contrarre la malattia anche negli altri familiari.
La presenza di questo fattore di rischio non sta a significare che il familiare di un soggetto malato svilupperà sicuramente la malattia. Ma che la sua probabilità di svilupparla sarà leggermente superiore rispetto al resto della popolazione.
Al livello della prevenzione, i risultati di numerose ricerche hanno accertato un ruolo protettivo delle attività che richiedono un certo impegno cognitivo. Della presenza di una rete di relazioni sociali e affettive significative anche in età avanzata. Dell’attività fisica moderata ma costante.
Patologie come aterosclerosi, ipertensione arteriosa, obesità, diabete, patologie cardiovascolari sono fattori associati con l’insorgenza della malattia. La prevenzione con una dieta adeguata e controlli medici protegge dall’insorgenza della malattia di Alzheimer.
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Terapia
Non esiste una terapia che guarisca la malattia di Alzheimer. Tutti gli interventi sono volti a rallentare la sua progressione.
I farmaci più importanti sono gli inibitori della colinesterasi. La loro efficacia è però limitata ad una parte delle persone coinvolte. In genere i risultati migliori si ottengono quando la terapia è somministrata nelle fasi iniziale e moderata della malattia.
La loro azione si esplica attraverso l’inibizione dell’attività dell’acetilcolinesterasi. Un enzima presente nel cervello. Questo effetto permette alle cellule cerebrali di avere una disponibilità maggiore di acetilcolina. Uno dei più importanti neurotrasmettitori del nostro sistema nervoso che nella malattia diminuisce sensibilmente.
Da qualche anno è disponibile un’altra molecola, la memantina. Antagonista del recettore NMDA del glutammato. Che sembra essere efficace nel rallentare l’evoluzione della malattia. A differenza degli inibitori della colinesterasi, la memantina è indicata nelle fasi moderata e severa della malattia.
Recentemente si è individuato come il glutatione nell’ippocampo (zona del cervello fondamentale per la memoria) si riduce molto nelle fasi precoci della malattia ( 3 ). Poiché il glutatione è un antiossidante molto importante che protegge il cervello dai radicali liberi, i risultati forniscono un’altra misura da utilizzare per diagnosticare la progressione della malattia di Alzheimer. Questa ricerca innovativa ha un enorme potenziale per lo sviluppo terapeutico della malattia di Alzheimer.
Terapie psicosociali
Le forme di trattamento non-farmacologico consistono prevalentemente in misure comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico. I training cognitivi sono utilizzati sia per stimolare e rinforzare le capacità neurocognitive residuali, sia per migliorare l’esecuzione dei compiti di vita quotidiana.
Fondamentale è inoltre la preparazione ed il supporto, informativo e psicologico, rivolto anche ai “caregivers“, cioè delle persone che si prendono cura dei pazienti.
Si sta sperimentando da poco negli USA un sistema che consente alla persona sofferente di Alzheimer di essere quotidianamente aiutata e stimolata nei propri ricordi. La cosa si ottiene creando un filmato di 30-60 minuti con immagini tratte dall’iconografia nota alla persona in questione (foto tratte dagli album di famiglia, filmini girati negli anni precedenti, ecc.) nel quale viene raccontata la sua storia dall’infanzia fino a poco prima della malattia. Nel filmato si mostrano anche i luoghi noti (la casa in cui abita o abitava, il vecchio posto di lavoro, ecc.), i familiari, i parenti, gli amici, i figli e i nipoti. In pratica, tutte quelle persone che hanno avuto una importanza nella vita prima che il paziente soffrisse di Alzheimer. Il filmato utilizza anche una colonna sonora ottenuta da musiche che notoriamente hanno scandito i vari periodi importanti della sua vita.
Fra le varie terapie non farmacologiche proposte per il trattamento della demenza di Alzheimer, la terapia di orientamento alla realtà (ROT) è quella per la quale esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure modesta). Questa terapia è finalizzata ad orientare il paziente rispetto alla propria vita personale, all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e musicale.
1 commento su “Alzheimer: la principale forma di demenza”
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